Sulla pedemontana del Grappa

In quella parte della terra prava 
Italica, che siede intra Rialto 
E le fontane di Brenta e di Piava, 
Si leva un colle e non surge molt'alto, 
Là onde scese già una facella 
Che fece alla contrada grande assalto. 
Così nella Divina Commedia il sommo poeta Dante fa descrivere a Cunizza, sorella di Ezzelino da Romano, il sito in cui sorgeva la roccaforte da cui il tiranno usciva a seminare stragi e morte per la veneta pianura. 
Posto allo sbocco della valle del Brenta lungo l'antica strada regia collegante Venezia a Trento, Romanum, come allora si chiamava, con i suoi sette colli ben si prestava ad essere munito di fortificazioni inespugnabili: e tale lo resero per l'appunto gli Ezzelini edificando il loro castello sulla cima del col Bastìa. 
La storia di questa famiglia, ed in particolare di Ezzelino Ill' che ne fu l'esponente più famoso, è stata ultimamente rivalutata da approfonditi studi che l'amministrazione comunale ha promosso per mettere nella giusta luce questa figura così spesso travisata nel passato ed ai suoi tempi infamata da avversa propaganda guelfa. 
Il nome di Ezzelino III° è infatti giunto sino a noi carico di imprecazioni di preti e di frati, di scomuniche di papi, di improperi di poeti, di maledizioni di scrittori; è divenuto sinonimo di quanto di empio, crudele, barbaro e bestiale abbia saputo immaginare la fantasia di un demonio. E del demonio la tradizione narra sia figlio, come anche cantò l'Ariosto: 
"Ezzelino, immanissimo tiranno, 
che fia creduto figlio del demonio"; 
e da esso si racconta ancora fosse stato rapito in punto di morte tra infernali fumi che riempirono la camera ardente. 
Estinta la famiglia degli Ezzelini, il furore dei popolo volle cancellare ogni traccia di una genia tanto perversa distruggendone i castelli, le proprietà ed arrivando fino a violarne le tombe: sola si salvò la lapide sepolcrale del padre Ezzelino il monaco, così chiamato per essersi ritirato in vecchiaia nel monastero di Oliero da lui eretto; portata dai benedettini di Campese nella pieve di Santa Giustina a Solagna, si trova ora murata nella parete esterna della chiesa: su di essa si vede scolpito un benedettino, la testa appoggiata su cuscini, ed i guanti, simbolo di signoria, in mano. 
Da questi cruenti avvenimenti trae origine la più tipica manifestazione folcloristica di Romano d'Ezzelino: il palio delle contrade. Nel 1260 si svolse infatti a Vicenza un palio con cavalli in cui gareggiarono le varie contrade dei distretto: lo scopo era quello di celebrare ufficialmente la liberazione dalla tirannia ezzeliniana, compitasi con la strage di San Zenone nella quale fu massacrata la famiglia di Alberico da Romano, fratello di Ezzelino il tiranno morto l'anno prima a Soncino. Quello di Romano è però un palio tipicamente contadino; e lo si nota fin dall'inizio quando, dopo l'esibizione degli sbandieratori, sfilano le tredici squadre di contrada: ognuna è composta dal portabandiera con il gonfalone, il fantino, il palafreniere ed una coppia, tutti vestiti con i caratteristici costumi contadini del secolo scorso e recanti con sé antichi attrezzi del lavoro agricolo. In omaggio poi all'animale da soma, compagno dell'uomo in tante fatiche dei campi, il palio non è, come si potrebbe pensare, corso dai cavalli, ma dagli asini, i simpatici "mussi" nostrani. 
Al via, le raglianti cavalcature pungolate dall'agricolo cavaliere devono percorrere per tre volte il lungo tragitto snodantesi attraverso le vie del paese, tra gli incitamenti delle varie contrade in gara e gli sguardi divertiti della folla. 
Appuntamento all'ultima domenica di aprile, dunque, per assistere a questa originale manifestazione che di anno in anno si arricchisce di nuove iniziative tese a renderne lo svolgimento sempre più aderente alla realtà storica che ne è all'origine.

Dopo gli Ezzelini, anche la Serenissima lasciò a Romano sue tracce, e numerose sono le ville gentilizie che i nobili veneziani eressero ai piedi di queste colline, nel dolce clima dell'olivo. Per un itinerario di visita potremmo partire da Cà 7, appena fuori Bassano lungo la strada per Trento, dove si dirama la statale "Cadorna" che, passando per Romano Alto, in 32 chilometri conduce alla cima dei Grappa. Incontriamo dapprima la quattrocentesca villa Cà Cornaro, ora sede di un istituto religioso e di una scuola, affiancata dalla sua graziosa chiesetta: una visita merita il vasto parco in cui a verdi spianate erbose si alternano boschetti di plurisecolari piante esotiche. Proseguendo, una diramazione sulla destra (via Molinetto) passa successivamente davanti a villa Locatelli-Stecchini e quindi a villa Stecchini; evidente in entrambe è la connessione delle architetture con la gestione agricola del fondo: le barchesse, la colombaia, nell'ultima anche una peschiera, indicano lo stretto legame con la terra dell'antica nobiltà veneziana ed il suo attivo interessamento e coinvolgimento nella gestione dell'azienda agraria; tutte sono poi abbellite da alberi maestosi ed immancabilmente accompagnate dalla cappella gentilizia.Tiriamo diritto al successivo incrocio, immergendoci ora tra i dolci declivi dell'area collinare. Al sommo dei col Bastia si leva solitaria la "torre ezzeliniana", eretta dalle genti di Romano nel luogo ove un tempo sorgeva il castello dei tiranno; davanti ad essa, una lapide posta dalla "Dante Alighieri" ricorda le terzine dei paradiso citanti il celebre sito. La bellezza di queste verdi colline colpi profondamente anche il pittore bassanese Jacopo Da Ponte, che in uno dei suoi quadri più famosi, la "fuga in Egitto", le pone a fondale dell'opera. La posizione elevata sulla pianura, e nello stesso tempo discosta dalle pur vicine montagne, ne fa un belvedere di incomparabile bellezza: a nord precipitano bruscamente al piano gli sproni del Grappa e dell'altopiano dei sette comuni, squarciati a mezzo dalle profonde valli internantisi in essi; ad est più amene ondulazioni vanno a raccordarsi ai colli asolani su cui troneggia possente la rocca di Caterina Cornaro con ai piedi la bella Asolo; a sud la campagna si stende a perdita d'occhio fino al mare nascosto da brume lontane; ad ovest infine svettano le torri della vicina Bassano, anch'esse strenui baluardi ezzeliniani. 
Discesi al piccolo borgo di Romano Alto e risalita per qualche chilometro la statale del Grappa, giriamo quindi a destra all'altezza di un capitello votivo (via Farronati) per dirigerci verso l'angusto solco vallivo della valle Santa Felicita. 
Sede di una "fara" longobarda e luogo d'incontro dei commerci della zona attorno all'anno mille, essa si inoltra stretta e rupestre nel cuore del massiccio del Grappa. 
Sul fondo sassoso dei greto torrentizio sorge il tempietto dedicato alla Madonna del Buon Consiglio; più avanti, dove il torrente ha scavato il suo letto in un'erta soglia di dolomia, si entra nella palestra di roccia, punto d'incontro degli alpinisti che qui si impegnano in severi allenamenti e sede di svolgimento di numerosi corsi roccia.

 

Ma ritorniamo ora sui nostri passi per dirigerci (via Carlessi) verso Pove; la strada corre alla base della soleggiata costiera pedemontana, dove il clima mite dato dalla particolare posizione geografica (al riparo dai venti e fuori dal pericolo delle fredde nebbie e delle brinate così frequenti nella sottostante pianura) rende possibile la coltivazione dell'olivo, pianta caratteristica del caldo clima mediterraneo, qui presente nel suo areale più nordico. 
Certamente introdotta dai Romani che, considerando l'olio componente fondamentale della loro alimentazione, la coltivarono dove possibile nelle terre conquistate, se ne ha notizia sin dal 1131 quando la sua presenza nella zona di Angarano fu documentata in un atto di compravendita agraria. 
I lunghi secoli di coltivazione selezionarono poi la pianta, affinandone l'adattabilità al clima locale e rendendola estremamente resistente ai freddi inverni del pedemonte. 
Componente fissa del paesaggio agrario, l'olivo intreccia i suoi coltivi alle rustiche abitazioni; la gente ha per questa pianta un'affezione innata che la spinge a coltivarla i ogni ritaglio di terreno: si può dire che non c'è angolo della campagna o delle erte pendici digradanti. sui paesi in cui non si veda: ceruleo verdeggiare delle sue fronde. 
Anche la tradizione le riserva una partici lare considerazione: ogni anno in marzo, al la fiera dell'olivo di Pove, ci si ritrova in piazza a gustare la tipica "bruschetta", mentre tutt'attorno fanno bella mostra di sé caratteristiche composizioni floreali che hanno come centro di interesse appunto la nostra pianta.

Per la sua posizione strategica all'imbocco della valle del Brenta, Pove fu costituito fin dall'antichità in fortezza: sulle montagne che lo proteggono alle spalle una cinta muraria con la bastia ed il castello ezzeliniano rendevano agevole il controllo del traffico commerciale in sinistra Brenta ed inespugnabile alle milizie lo stretto passo del canale. 
Attorno a questi luoghi la fantasia popolare ricamò le. fosche leggende di "re Zalìn": nelle notti di tregenda, in mezzo alla bufera, il feroce tiranno accompagnato dal demonio vaga nel cielo cavalcando un bucefalo che lascia dietro di sé una lunga scia di fuoco ed emettendo spaventosi grugniti ed ululati; presso i ruderi del castello sul Cornon sarebbero poi nascosti a grande profondità forzieri riboccanti d'oro e d'argento, pentole zeppe di monete ed altri tesori. 
Un'altra leggenda, questa volta più gentile, sta invece alla base della tradizione che da secoli anima il paese in un mistico efflato di religiosità popolare. 
Si narra dunque che un pellegrino fiammingo, nel lungo viaggio verso Roma in occasione dell'anno giubilare del 1300, abbia chiesto e ricevuto ospitalità per alcuni giorni dal parroco di Pove; non sapendo come sdebitarsi, chiese al sacerdote un tronco di olivo nel quale scolpì, in due giorni e una notte di lavoro, le mirabili fattezze del Crocifisso. 
Qualche decennio più tardi la sacra effigie fu invocata per salvare il paese da un'epidemia di peste: in segno di ringraziamento per l'intervento divino fu indetta una solenne processione che, in un primo tempo a cadenza decennale, quindi quinquennale ed arricchita di nuovi contenuti di fede popolare, costituisce oggi il centro delle feste del Divin Crocifisso. 
Ben 550 persone, praticamente un quarto della popolazione dei paese, sfilano in costume rievocando i vari personaggi biblici e gli avvenimenti salienti della storia della salvezza. 
Da Adamo ed Eva ai patriarchi d'Israele, dal popolo ebreo in cammino nel deserto alla conquista della terra promessa, dai giudici ed i re ai profeti, l'antico testamento si svolge sotto gli occhi dello spettatore richiamando alla memoria scene e personaggi mitici ora trasformati in una realtà tangibile. Ma è soprattutto nella rievocazione dei miracoli e delle parabole di Gesù, al cui termine c'è proprio Lui, il Cristo, a portare barcollante la pesantissima croce, che la sacra rappresentazione diventa liturgia, e muove gli animi più sensibili ad una commozione profonda. 
Per tre domeniche consecutive, le prime dei mese di settembre, le feste del Cristo richiamano a Pove alcune migliaia di persone, fra turisti ed emigranti rientrati per l'occasione. 
La processione conclusiva viene effettuata in notturna; al suo termine, la rappresentazione teatrale della morte in croce e della resurrezione di Cristo, allestita nella piazza del paese, mette la parola fine a questo immenso impegno di pietà popolare. 
Fino ad un recente passato le vicine montagne provvidero dal loro cuore a fornire lavoro per i Povesi: gli abilissimi scalpellini locali vi cavavano "superbissimi marmi di varj colori: cinerizio, rosso carico, rosso chiaro e bianco. Questo ultimo singolarmente per la sua bianchezza singolare e per la sua lucidezza viene assai stimato dagli artefici. E' denominato Biancon di Pove, ed assomiglia moltissimo al marmo di Carrara". 
La loro perizia nel lavorare la pietra rese gli scalpellini povesi richiestissimi in tutta Europa: li ricordiamo chiamati da Napoleone a lavorare nelle procurate di Venezia o dal Canova per la costruzione dei tempio di Possagno, ma anche all'estero dove, ad esempio, decorarono la mirabile cattedrale di Colonia. 
Ora che quest'arte, travolta dall'avanzata dei moderni macchinari, è pressoché scomparsa ed i suoi ultimi sprazzi trasferiti nella "bottega" di qualche scultore moderno, è comunque possibile ammirare i capolavori del passato alla "mostra dello scalpellino povese" allestita nel civico museo. Dopo una breve visita alla parrocchiale in cui si conserva il Crocifisso ligneo protagonista delle Feste ed alla pieve di San Pietro, una delle più antiche della diocesi patavina, il nostro itinerario potrà concludersi sulle sponde del Brenta, nelle vicinanze di villa Rubbi, ora sede del locale istituto agrario, dove la romanica chiesetta di San Bartolomeo troneggia alta sulla sassosa riva a ricordare il tempo in cui i viandanti invocavano la protezione del Santo prima di guadare la corrente dei fiume.

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