Com'eravamo

Abitato e coltivato molto sporadicamente fino all'anno 1000, si può dire che il Canal di Brenta cominciò ad essere popolato grazie all'influsso dei monaci benedettini stanziatisi nel 1127 a Campese. 
Sotto la spinta del loro motto "ora et labora" molte terre incolte e sterili furono dissodate, bonificate e messe a coltura; le aziende agricole così ottenute venivano quindi cedute a livello enfiteutico, una forma di affitto pluriennale: il canone era piuttosto basso e doveva essere accompagnato da alcune regge in natura da farsi al convento a Natale e Pasqua; il locatario doveva inoltre assumersi l'impegno di migliorare il fondo e renderlo sempre più produttivo, avendo alla fine la possibilità di acquistarlo. 
L'esiguità dei terreni coltivabili nel fondo valle e sulle prime pendici dei monti non permise però un grande ripopolamento, come si verificò invece più tardi quando, attorno al 1300, iniziò lo sfruttamento dei boschi montani: il legname era infatti molto richiesto dai Comuni veneti che in quell'epoca, con l'accrescersi delle autonomie e l'intensificarsi della vita urbana, conobbero uno sviluppo edilizio senza precedenti. 
Due secoli dopo, e massimamente nel periodo della guerra contro i Turchi, la richiesta proveniva soprattutto dalla dominante Venezia che per il suo arsenale esigeva grandi quantità di legname; nei nostri boschi si ricavavano in particolare le stanghe di faggio per la fabbricazione dei remi (da cui il nome "Col dei Remi" di un monte sovrastante Valstagna). 
Delle attività legate al bosco viveva dunque la maggior parte dei paesi del canale, tanto che nel 1502 Alvise de Piero, segretario ducale veneziano, poteva scrivere che, "... di quelle vivono quelle ville, massime la villa di Valstagna, la qual villa è sopra la rippa della Brenta, e non ha alcun palmo di terreno, et non coglie pane, né vino, et vive di questa industria". 
Anche il Dottori, colpito dal selvoso aspetto dei luoghi, scriverà: 
"Valstagna che produce elci, orni e faggi, A cui simili son gli abitatori". 
Il commercio del legname era però in mano ai nobili mercanti veneziani, ai quali i comuni vendevano le parcelle di bosco; i "boschieri" locali provvedevano quindi ad abbattere le piante, ridurle in forma mercantile ("... la mazor parte si fanno zocchi de piè nove l'uno, e poi li stendono in stelle, cioè in doi stelle per zocho ... ") e trasportarle nei luoghi di concentramento detti stazi. 
Qui, sotto il controllo del "partidor" comunale, la legna veniva misurata, marcata e suddivisa in partite; i "boari" provvedevano infine al trasporto dei tronchi fino agli stazi sul Brenta dove venivano affidati alla corrente del fiume alla rinfusa ("in menada") oppure riuniti in zattere. 
Altra importante attività svolta in bosco era la fabbricazione del carbone; allo scopo venivano utilizzati gli scarti derivanti dalla ripulitura dei tronchi, come cimali e ramaglia, nonché le piante schiantate o altrimenti inutilizzabili ed i polloni del ceduo. Di quest'arte ormai scomparsa sarà interessante ricordare lo svolgimento. In apposite radure dei bosco, le aie carbonili, veniva costruito il "pojato", una specie di montagnola, larga e alta circa 4 metri, realizzata accostando e quindi sovrapponendo in strati concentrici i tondelli di legno. 
Al centro veniva lasciato un camino attraverso il quale il carbonaro alimentava il fuoco di cottura; ogni altro spiraglio doveva essere chiuso e per questo la catasta veniva ricoperta con uno strato di fogliame e terra spesso una trentina di centimetri. 
A questo punto si poteva procedere all'accensione: attraverso il camino centrale veniva introdotta legna secca e brace, tappando subito dopo il foro d'alimentazione con foglie e fango. La cottura, che iniziava dall'apice e procedeva quindi verso gli strati inferiori, doveva essere seguita con molta attenzione per evitare che il fuoco si spegnesse, compromettendo così tutto il lavoro, e viceversa che le fiamme troppo alimentate riducessero il legname in cenere. 
Con il procedere della cottura venivano aperti dei fori di aerazione in corrispondenza dello strato che si stava carbonizzando: da questi usciva un fumo sempre più scuro fino a cottura ultimata. 
Al termine delle operazioni il carbone veniva estratto, a partire dal colmo, prelevando in giro tondo gli strati superficiali senza mai penetrare bruscamente in profondità per non reinnescare la fiamma. 
Da ogni poiato si potevano ricavare 70-100 quintali di carbone per il quale occorreva una quantità di legna 7-8 volte superiore. 
I carbonari più esperti erano di San Nazario e di Solagna; il relativo commercio, a differenza di quello dei legname, era in mano a locali che lo vendevano soprattutto a Padova, dove i fabbri ne facevano grande consumo. 
La continua richiesta di legna da ardere, legname d'opera e carbone (e spesso anche di nuove terre da mettere a coltura) indusse però i comuni ad utilizzare troppo intensamente i boschi, la cui integrità Venezia cercò ben presto di salvaguardare, oltre che per assicurarne la produzione futura, anche a scopi strategici (per la difesa dei confini) e di protezione idrogeologica, stabilendo regole e limiti d'utilizzo: " ... e perché tagliate le degne si suol mettere fuoco nei boschi per ridur li boschi a prado, ovvero a coltura, però sia statuito et ordinato che non si possa metter fuoco in detti boschi sotto pena di lire trecento e star mesi sei in prigione, e questo si fa perché li boschi possino crescere et loro uomini possano in avvenire avere il beneficio di tagliar degne per uso et allimento suo; et affinché li uomini predetti non trasgrediscano in tagliar li boschi che non sono concessi, però sia statuito, et ordinato, che Alvise de Piero nodaro nostro vadi a mettarli li confini nelli boschi di sopra concessi". 
Altra importantissima risorsa della valle era il Brenta stesso, la forza delle cui acque veniva utilizzata come motrice di numerose fabbriche; "... innumerevoli sono poi le attività che ridondano dall'acque del Brenta. Imperocché esse volgono, spingono, animano cento edifizij d'ogni maniera, molini, magli da batter ferro e rame, seghe, cartiere, folli di panno, pesta-sassi per le inverniciature delle porcellane, delle terraglie, delle majoliche, e specialmente i magnifici torcitoi degli orsogli per filare la seta". 
Più poeticamente l'Allegri così le descrive: 

"Qui tonfolati dalle grigie alture 
Di muscosi basalti i lunghi abeti 
Flutuan nell'onde e tratti al dente scabro 
Delle stridule seghe, apronsi in liste, 
Che liscia quindi l'ingegnosa pialla. 
E qui, ferrei masselli all'aspre incudi 
Flagella il maglio colla grave ai colpi Misurata cadenza". 
Le stesse acque del Brenta provvedevano poi a trasportare sul loro dorso le zattere cariche dei prodotti lavorati, dirette a Bassano, Padova, Venezia. 
Erano queste formate unendo tra loro quattro o cinque "copule", a loro volta costituite da un gruppo di tronchi lunghi 4-5 metri, accostati e legati l'uno all'altro, su cui trasversalmente venivano disposti scorzi o pacchi di tavolame; All'estremità, due paia di lunghi remi erano incernierate sui rispettivi "postelli". 
Alla partenza uno "stimador" pubblico controllava il legname e la merce caricata sulle zattere, ne registrava quantità, qualità, provenienza e destinazione, riscuoteva gli eventuali dazi e rilasciava allo zattiere una bolla di accompagnamento. 
Povera ed essenziale era invece l'agricoltura praticata in valle: le solite "biave" per il pane e la polenta, la canapa per i tessuti, alcune piantagioni di gelso per nutrire i bachi da seta e l'allevamento del bestiame, che, nutrito d'inverno con il magro fieno tagliato su qualche erto pendio (i "masi") con la "sézoea", veniva portato ad alpeggiare nella stagione estiva sui pascoli delle malghe comunali, soggetti ad uso civico e quindi usufruibili da tutti i residenti. 
Nella seconda metà dei seicento iniziava però in Valbrenta la coltivazione di una pianta esotica che doveva rivoluzionare nel giro di pochi anni l'economia e l'aspetto stesso della valle: il tabacco. Scoperto in America dove veniva fumato dagli indios, la tradizione lo vuole introdotto nella nostra zona da un monaco benedettino che ne usò a scopo medicinale. Fiutatane l'importanza commerciale, la Serenissima Repubblica vi impose inizialmente un dazio, per poi vietarne del tutto la coltivazione. I privilegi da sempre goduti dai nostri paesi ne consentivano comunque la coltivazione per lo stretto uso personale degli abitanti; tale restrizione non venne però rispettata, tanto che, dopo reiterati quanto inutili tentativi di spianto da parte delle autorità, Venezia fu costretta a venire a patti, stipulando nel 1763 il primo contratto di coltivazione con i comuni della destra Brenta. 
Nonostante i severi controlli la coltura continuò ad espandersi tanto che, esauriti i pochi campi pianeggianti dei fondovalle, i nostri coltivatori iniziarono a sistemare a gradoni i pendii dei monti circostanti, realizzando quelle mirabili opere di fatica e di ingegnosità che sono i terrazzamenti. 
Di pari passo con l'estendersi della coltivazione andò pure l'affinamento delle caratteristiche del tabacco locale che diventò a poco a poco una varietà ben distinta, il "nostrano del Brenta", selezionata dal particolare ambiente della valle: una pianta di bassa statura, molto resistente all'azione del vento e di notevole rusticità. In essa è possibile altresì distinguere tre tipi colturali: il Cuchetto, pregiatissimo per il suo aroma ma ben presto abbandonato perché troppo delicato; l'Avanetta, dalla foglia piccola ma di buona qualità, nelle due forme liscia e bollosa; infine l'Avanone, molto produttivo ma di pregio inferiore. 
Caduta nel frattempo la signoria veneziana, il privilegio della coltivazione venne esteso da Francesco I° d'Austria, nel 1817, ai comuni della sinistra Brenta lapide nella piazza di San Nazario). Con la successiva annessione al regno d'Italia i contratti con il monopolio favorirono la coltivazione dell'Avanone, varietà più combustibile e adatta quindi al mutato uso dei tabacco, che dal fiuto era passato ora al fumo. Anche il sistema di addebito per la consegna del tabacco, un tempo a peso, fu cambiato, introducendo il conteggio dei numero delle foglie. 
L'eccessiva fiscalità ed il basso prezzo pagato dal monopolio finirono per far esplodere il fenomeno dei contrabbando: mille stratagemmi furono allora inventati per sottrarre piante e foglie ai vari controlli, mentre una lotta senza tregua, una sorta di caccia del gatto al topo, si, svolgeva sui costoni delle montagne: per una "carga" di tabacco ci si poteva benissimo beccare una fucilata dalla finanza. Il ciclo colturale del tabacco iniziava con i primi tepori primaverili quando la minuscola semente, mescolata alla cenere per poterla spargere con maggior agio, veniva affidata al terreno dei semenzai. 
Nel frattempo sul campo, preparato con la vangatura a "rodai" nell'autunno precedente ed ora livellato, venivano tracciate col "cristo" (una sorta di rastrello con i denti distanziati di 60 centimetri) le linee longitudinali e trasversali ai cui incroci si trapiantava la piantina appena colta. 
Seguivano, con lo sviluppo della coltura, alcune zappature e rincalzature in occasione delle quali la piantina veniva concimata con il "pocio", il liquame dei gabinetti. 
Giunto ad una certa altezza il tabacco veniva cimato lasciando tre corone di foglie: l'operazione stimolava però l'emissione dei germogli ascellari (i "rabuti") che dovevano essere continuamente tolti (e il "rabutare" curvi sotto il sole era davvero una faticaccia!). 
Prima della maturazione delle foglie veniva eseguita l'operazione dei "repuimento": decine di uomini, donne e ragazzi delle varie famiglie coltivatrici si ritrovavano a turno nelle varie proprietà dove, sotto il controllo del monopolio e della finanza, toglievano le foglie della corona più bassa; queste venivano poi gettate in una buca appositamente scavata e tagliuzzate con la vanga per evitare che venissero recuperate e vendute di contrabbando. 
Allo stesso scopo seguiva quindi la conta delle foglie: alla raccolta il proprietario era tenuto a consegnare il numero esatto di foglie stimato nel corso di quest'operazione! Con l'avanzare della stagione, a partire dal basso le foglie denunciavano la loro maturazione con un impallidimento del colore, un ripiegamento della punta e dei bordi, un aumento della fragilità: iniziava così la raccolta della "bassa foja", seguita a breve distanza da quella delle foglie mediane e delle apicali. 
Portate le "carghe" negli ampi stanzoni ventilati presenti ai piani superiori di tutte le case, le foglie venivano innanzitutto distese e accumulate in "masara" per farle fermentare; raggiunta una certa temperature le si appendeva agli "smussi" (dei listelli di legno lunghi 3-4 metri) sovrapponendone le punte. Dopo una quindicina di giorni il tabacco assumeva una bella tonalità bruna: per completare l'essiccazione le foglie venivano allora girate dall'altra parte, sovrapponendo un altro smusso e rovesciando il tutto ("rapicare el tabacco"). Occorrevano circa cinquanta giorni per ultimare il processo di "ammarronamento", dopodiché le foglie, divise per qualità, venivano disposte in cumuli detti "banche" per uniformarne l'umidità ed infine consegnate al magazzino dei monopolio. 

 

 

 

"Ma la nicozia - scriveva all'inizio del secolo l'arciprete di Solagna -, le trote del Brenta, le praterie, l'erba che si va a recidere con il falcetto ovunque spunta, fin sui ripidissimi pendii e sull'orlo delle rocce, non bastano a provvedere alla popolazione sempre crescente; perciò da oltre mezzo secolo i nostri valligiani sono costretti ad emigrare". 
L'emigrazione, che da stagionale divenne poi definitiva, spopolò in pochi anni il territorio, dimezzandone i residenti. 
Anche al giorno d'oggi, nonostante il fenomeno sia stato ridimensionato dalla presenza del polo artigianale e commerciale di Bassano, verso cui la popolazione attua un pendolarismo di breve raggio, quello dell'emigrazione rimane il problema principale dei paesi della Valbrenta, cui solo un'oculata amministrazione dell'ambiente e dei servizi territoriali potrà porre un freno.

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