Comune di Lazise
Il primo Comune d'Italia 983

Santo Patrono di Lazise



La leggenda

Era l’11 novembre: il cielo era coperto, piovigginava e tirava un ventaccio che penetrava nelle ossa; per questo il cavaliere era avvolto nel suo ampio mantello di guerriero. Ma ecco che lungo la strada c’è un povero vecchio coperto soltanto di pochi stracci, spinto dal vento, barcollante e tremante per il freddo. Martino lo guarda e sente una stretta al cuore. "Poveretto, - pensa - morirà per il gelo!" E pensa come fare per dargli un po’ di sollievo. Basterebbe una coperta, ma non ne ha. Sarebbe sufficiente del denaro, con il quale il povero potrebbe comprarsi una coperta o un vestito; ma per caso il cavaliere non ha con sé nemmeno uno spicciolo. E allora cosa fare? Ha quel pesante mantello che lo copre tutto. Gli viene un’idea e, poiché gli appare buona, non ci pensa due volte. Si toglie il mantello, lo taglia in due con la spada e ne dà una metà al poveretto.
"Dio ve ne renda merito!", balbetta il mendicante, e sparisce. San Martino, contento di avere fatto la carità, sprona il cavallo e se ne va sotto la pioggia, che comincia a cadere più forte che mai, mentre un ventaccio rabbioso pare che voglia portargli via anche la parte di mantello che lo ricopre a malapena. Ma fatti pochi passi ecco che smette di piovere, il vento si calma. Di lì a poco le nubi si diradano e se ne vanno. Il cielo diventa sereno, l’aria si fa mite. Il sole comincia a riscaldare la terra obbligando il cavaliere a levarsi anche il mezzo mantello. Ecco l’estate di San Martino, che si rinnova ogni anno per festeggiare un bell’atto di carità ed anche per ricordarci che la carità verso i poveri è il dono più gradito a Dio. Ma la storia di San Martino non finisce qui. Durante la notte, infatti, Martino sognò Gesù che lo ringraziava mostrandogli la metà del mantello, quasi per fargli capire che il mendicante incontrato era proprio lui in persona.

Vita di San Martino

Martino nacque in Pannonia, l’odierna Ungheria, nel 316; era figlio di un ufficiale romano e fu educato nella città di Pavia, dove passò la sua infanzia fino all’arruolamento nella guardia imperiale all’età di quindici anni. A scuola Martino prese i primi contatti con i cristiani e, all’insaputa dei genitori, si fece catecumeno e prese a frequentare con assiduità le assemblee cristiane. La sua umiltà e la sua carità hanno dato vita ad alcune leggende tra cui quella in cui Martino incontrò un povero al quale donò metà del suo mantello; oppure quella dell’attendente che Martino considerava come un fratello, tanto da tenergli puliti i calzari.

Tradizioni
L’11 novembre si festeggia San Martino; nata come festa di carattere religioso per rendere omaggio al Santo vescovo di Tours, la festa di San Martino si è poi trasformata in una ricorrenza di carattere folcloristico che nel nostro paese si identifica con l’Estate di San Martino.
Con questa espressione infatti si indica una particolare situazione climatica, legata in generale all’area mediterranea, per cui nel mese di novembre, di solito mese freddo e piovoso, si instaura un breve periodo di tempo bello dal clima piacevole che richiama quello solare dell’estate.
Questo evento prende il nome da una leggenda che racconta come San Martino, in un giorno freddissimo, donò ad un povero parte del suo mantello e, proprio allora, sarebbe uscito uno splendido e caldo sole.

Ma l’11 novembre era anche importante per i contadini di un tempo perché segnava in un certo senso anche la fine di un anno di lavoro, con la scadenza dei contratti agrari, il pagamento degli affitti e la partecipazione alle fiere più importanti.

Secondo un detto popolare “fare San Martino”, “fare i traslochi” come simpaticamente dicono in Val Ceno, equivale a far su fagotto, sloggiare ossia cambiare casa, paese, città, posto di lavoro, andarsene insomma, affrontando le inevitabili conseguenze, il disagio, il trambusto ed una probabile sofferenza, conseguente ad ogni mutamento di vita.
Alle volte può significare miglioramento di situazione, comunque il fatto ha sempre un amaro sapore di distacco.
L’annuale ricorrenza dell’11 novembre riconduce innanzi tutto ai sentimenti e allo spirito del Santo Vescovo di Tours, dal quale deriva il termine “fare San Martino”.
Con i carri agricoli, scricchiolanti sulle strade polverose e ghiaiate, ricolmi di ogni roba, trainati da buoi o dalle mucche si facevano i traslochi. Il giorno stesso del trasferimento, l’animazione della famiglia in partenza, contagiava anche i vicini di casa, per lo più disponibili a dare una mano.

“Per San Martino spilla la botte del buon vino ”. Questo è uno dei tanti proverbi che trovano ospitalità nei calendari, l’11 novembre e che sottolinea decisamente il vincolo esistente tra la ricorrenza e la tradizionale “spillatura” del vino nuovo.
Felicemente ancorati a forme tradizionali, alcuni contadini, nonostante il progressivo mutare delle usanze, continuano a fare il vino in casa col rituale antico, o meglio nella cantina dal pavimento di terra battuta e lucida, semibuia e fresca, pavesata di strane bandiere intessute pazientemente da qualche ragno in cambio di una indisturbata ospitalità.
Il mosto dopo essere uscito fragrante dal tino veniva affidato per conseguire la “maturità” a botti o botticelle e più tardi subire il travaso tra marzo e aprile, a “luna buona”, e finire imbottigliato.

San Martino nella Letteratura Italiana

San Martino
(di Giosuè Carducci)

La nebbia agli irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor de i vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

Una lirica che racconta in pochi versi un intero mondo. E' tutto in bianco e nero, per una giusta scelta tecnica. La metrica e' l'odicina anacreontica (quattro quartine di settenari).
Il Carducci qui mette a confronto il paesaggio malinconico di una natura grigia e tempestosa tipicamente autunnale, con la felicita' che c'e' nell'aria intorno a lui.
L'atmosfera festosa del borgo e' determinata dal giorno di San Martino in un piccolo paese maremmano (Bolgheri o Castagneto), poiche' per le strade si diffonde l'odore del vino e della carne che cuoce sullo spiedo, ma i pensieri dell'uomo sfuggono a quest'allegria e volano lontani (com'esuli pensieri nel vespero migrar). La figura del cacciatore riporta il lettore al momento malinconico dell'ora del tramonto e gli uccelli migratori, paragonati a pensieri vaganti, diventano simbolo dell'inquietudine, degli affanni e degli slanci insoddisfatti dell'uomo.
Il maestrale diventa soggetto di urla e biancheggia e da tutto il quadro pare sentirsi il silenzio dell'uomo e i soli rumori della natura.

La nostalgia del Carducci

Il rapporto con la natura, nel Carducci, e' posto sempre all'inizio di ogni sua poesia, ma questo non significa ch'esso sia il piu' sentito. In effetti, la natura, nella sua poetica, non riesce a svolgere quel ruolo mediativo o catartico ch'egli le vorrebbe assegnare. E cio' proprio in virtu' del fatto che il poeta ha consapevolezza dell'importanza di un altro rapporto: quello politico-ideale con la societa'.

L'incapacita' di vivere in modo adeguato tale rapporto ha fatto si' che nelle sue ultime poesie domini l'elemento elegiaco, anche quando si e' in presenza di una vigorosa descrizione dell'ambiente naturale. La natura, in altre parole, non viene qui usata come strumento per cantare i successi della societa' o la realizzazione degli ideali politico-sociali, ma diventa la cornice (mai comunque formale o superficiale) che racchiude il quadro di una vita disillusa.

In San Martino l'esordio e' tutto paesaggistico; il poeta traccia anche uno schizzo di vita agreste, rurale, ma il finale resta malinconico. Il cacciatore, dietro al quale si cela il poeta, fischia non lontano dallo spiedo, lasciando presagire una vita soddisfatta di se' (l'aspro odor dei vini rallegra l'anima). Tuttavia l'apparente felicita' nasconde una tristezza: i pensieri sono esuli. Cioe', perche' l'uomo possa sopravvivere, sembra che la felicita' debba pagare un prezzo esorbitante: la morte del pensiero, la fine dell'autoconsapevolezza politica, la rinuncia insomma all'ideale. Di questo il cacciatore-poeta e' cosciente e, per quanto fischi, non puo' fare a meno di rimirar gli stormi-pensieri (ovvero gli ideali irrealizzati) che se ne vanno. Soltanto la natura, in ultima istanza, o la semplicita' delle cose tradizionali, puo' attenuare lo sconforto del poeta
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